Il vento soffia e nevica la frasca,
e tu non torni ancora al tuo paese,
quando partisti, come son rimasta,
come l'aratro in mezzo alla maggese.

martedì 30 novembre 2010

A un viaggiatore di Lionel Johnson

Carbonetti*Tempesta di novembre
I monti, e infine la morte solitaria
Sui monti solitari: o forte amico!
Concluso il peregrinare, compiuta la fatica,
Riposi infine davvero:
La terra ti diede il meglio di sé,
Quella fatica e questa fine.
La terra fu tua madre, e tu il suo vero figlio
La terra ti chiamò a conoscere le sue strade,
Sopra le grandi vette, su pei grandi fiumi: ora,
Sul petto generoso della terra
Riposi infine davvero:
Tu, e i tuoi ardui giorni.
Addio, cuore vigoroso! La notte tranquilla
Guarda calma a te: e il sole riversa
Su te il suo fulgore, o cuore possente!
La terra ti dà perfetto riposo:
La terra, che i tuoi piedi veloci calcarono:
La terra, che le ampie stelle coronano.
(A Mario Monicelli, grazie per il divertimento)

lunedì 29 novembre 2010

Russia di Aleksandr Aleksandrovic Blok

Pyotr Subbotin Permyak/Voronezhskaya Baba/1912 
 Di nuovo, come negli anni d'oro
strisciano tre logore imbrache
e si impantano i raggi dipinti delle ruote
nei solchi delle strade sgangherate...
Russia, misera Russia,
per me le grigie tue isbe,
per me le tue canzoni al vento sono
come le prime lacrime d'amore!
Io non so compatirti,
e porto con prudenza la mia croce…
Cedi la tua bellezza brigantesca
allo stregone che più ti piace!
Che egli ti adeschi e ti inganni, -
non ti perderai, non perirai,
e solo l'apprensione annebbierà
le tue bellissime fattezze...
Ebbene? Per un affanno di più,
per una lacrima il fiume è più fangoso,
ma tu sei sempre la stessa: foreste e campi,
e fazzoletto rabescato fin sopra le ciglia...
E l'impossibile si fa possibile,
la lunga strada è lieve,
quando sfolgora nella tua lontananza
da un fazzoletto uno sguardo improvviso,
quando con pena di carcere echeggia
il sordo canto del postiglione!...
(1908)

domenica 28 novembre 2010

Parole di Alfonso Gatto

MacRae/Melina
"Ti perderò come si perde un giorno
chiaro di festa: - io lo dicevo all'ombra
ch'eri nel vano della stanza- attesa,
la mia memoria ti cercò negli anni
floridi un nome, una sembianza: pure,
dileguerai, e sarà sempre oblio
di noi nel mondo."
Tu guardavi il giorno
svanito nel crepuscolo, parlavo
della pace infinita che sui fiumi
stende la sera alla campagna.
(Arie e ricordi)

sabato 27 novembre 2010

Margaret Fuller Slack di Edgar Lee Masters

Anna Hanska Mniszech/Jean Gigoux/1853 Sarei stata grande come George Eliot
ma il destino non volle.
Guardate il ritratto che mi fece Penniwit,
col mento appoggiato alla mano e gli occhi fondi-
e grigi, e indaganti lontano.
Ma c'era il vecchio, l'eterno problema:
celibato, matrimonio o impudicizia?
Venne il ricco esercente John Slack,
con la promessa che avrei potuto scrivere a mio agio,
e io lo sposai, misi al mondo otto figli,
e non ebbi più tempo per scrivere.
Per me, comunque, era tutto finito
quando l'ago mi trafisse la mano
mentre lavavo i panni del bambino,
e morii di tetano, un'ironica morte.
Anime ambiziose, ascoltate
il sesso è la rovina della vita!

venerdì 26 novembre 2010

Pioggia d'autunno di Vittoria Aganoor

The temptation of Sir Percival/1894/Arthur Hacker
Questa mane è piovuto, e alla mia stanza sale
dalle aperte finestre quell’odore autunnale
dei boschi, che risuscita forme e sogni scordati:
abbadie scure e mute; monaci incappucciati;
vecchie selve, dimora favolosa di maghi
dalla bacchetta d’oro; grotte profonde, e laghi
tetri, dal fondo verde d’alighe lunghe e folte,
forse chiome ribelli di naiadi, sepolte
sotto quell’acque...
A quando a quando il sol percote
la parete di contro, e muta tinte e note
a quel mobile mondo di fantasmi... È fuggita
ogni strana sembianza; ecco il sole, la vita,
la giovinezza, il vero! Che risi seduttori
che inviti, in quel suo bianco raggio d’autunno!
"Fuori! -
(sembra dir) - "l’aria è fresca, i prati sono ancora
verdi, e Cerere amica d’auree messi colora
i campi; oggi risplendo a festa, ma non giuro
d’esser l’ugual, domani; lo sapete, è sicuro
solo l’istante, l’ora fugge e i maligni fati
v’invidiano le feste; dunque fuori! sui prati,
alle colline! Avanti! che l’inverno è alle porte
ed avrò un bel risplendere se le foglie sien morte
e la neve distesa sulle zolle deserte
di vita!"
E intanto fulgida dalle finestre aperte
entra un’ondata bianca e m’invade la stanza
e spia per ogni dove come un bimbo in vacanza;
fruga tra i libri, scherza sul minuto lavoro
degli stipi; a ogni ninnolo dà una pagliuzza d’oro
e ride...
Io vorrei correre ai colli alti, al divino
aer libero e fresco, ma... sovra il tavolino
un nero volumone mi guarda, fa il cipiglio,
m’ammonisce, borbotta. Come è ingrato il consiglio
che mi dà quel maestro inflessibile e grave!
il cielo è così bello! l’aria così soave!
forse... è l’ultimo giorno di festa.
O che mi serbi
tu, libro tenebroso? forse dei veri acerbi
e null’altro...
No! meglio l’istante spensierato,
il sogno, anche se breve, il fantasma, evocato
da un raggio bianco e un ramo di gocciole coperto...
corriamo ai prati, ai colli, all’aperto, all’aperto!

giovedì 25 novembre 2010

Un Giorno vi è della Serie di Emily Dickinson

Herbert Andrew Paus /Thanksgiving 1910
Un Giorno vi è della Serie
Chiamato Giorno del Ringraziamento -
Celebrato in parte a Tavola
In parte, nella Memoria -
Né Patriarca né Micio
Io disseziono la Recita -
Che appare al mio Velato pensiero
Il riflesso della Festa -
Non ci fosse stata una brusca Sottrazione
Dalla Somma iniziale -
Né un Acro o un'Iscrizione
Dov'era una volta una Stanza -
Né una Menzione, il cui piccolo Ciottolo
Corrugherebbe qualsiasi Mare,
Quello, vi fosse una tale Assemblea,
Sarebbe il Giorno del Ringraziamento.
********
One Day is there of the Series
Termed Thanksgiving Day -
Celebrated part at Table
Part, in Memory -
Neither Patriarch nor Pussy
I dissect the Play -
Seems it to my Hooded thinking
Reflex Holiday -
Had there been no sharp Subtraction
From the early Sum -
Not an Acre or a Caption
Where was once a Room -
Not a Mention, whose small Pebble
Wrinkled any Sea,
Unto Such, were such Assembly,
'Twere Thanksgiving Day.

mercoledì 24 novembre 2010

Canto di donna di Clemente Rebora

R.H. Ives Gammell Lungo di donna un canto si trasfonde
come azzurro vapore
dai clivi lambiti dal sole d'autunno
che stanco dirada l'ardor delle fronde
e nuvole scioglie cercanti sopore.
Nel vuoto sostare dell'aria ascoltante
la voce mi pàlpita in cuore;
e le bellezze ripenso che sole
vaniscon senza amore:
baleno d'oro non giunto al guizzo,
pianta nel succhio divelta, tizzo
scordato sotto la cappa
a sognare la fiamma,
alito non respirato,
baci non schiusi,
forte corpo senza amplesso.
Dai clivi si versa si esala dispera
l'umido ombrare violetto:
a casa, a spremer la sera!

martedì 23 novembre 2010

La Doppia Immagine di Anne Sexton

Renè Bouchè A novembre compio trent'anni.
Sei ancora piccola, hai solo tre anni.
Guardiamo le foglie gialle, sono stremate,
turbinano nella pioggia d'inverno,
cadono e s'acquattano. Ed io ricordo
i tre autunni che non hai passato qui.
Hanno detto che mai ti avrei riavuto.
Ti dico quel che mai saprai davvero:
le congetture mediche
che spiegano il cervello non saranno mai reali
quanto queste foglie abbattute.
Io, che ho tentato due volte d'ammazzarmi,
ti avevo dato un nomignolo
appena arrivata, nei mesi del piagnucolare;
poi una febbre t'è rantolata in gola
ed io mi muovevo come una pantomima
attorno al tuo capino.
Angeli brutti mi hanno parlato. La colpa,
dicevano, era mia. Facevano gli spioni
come streghe verdi versando nella testa la rovina
come un rubinetto rotto;
come se la rovina avesse allagato la pancia e sommerso la culla,
un vecchio debito che dovevo accollarmi.
La morte era più semplice di quanto credessi.
Il giorno che la vita t'ha restituito sana e salva
Ho lasciato le streghe rapire la mia anima in colpa.
Ho finto d'esser morta
finché uomini bianchi m'hanno spompato il veleno,
m'hanno messo senza braccia e slavata
nella manfrina di scatole parlanti e letti elettrici.
Ridevo a vedermi messa ai ferri in quell'hotel.
Oggi le foglie gialle
sono stremate. Mi chiedi dove vanno.
Ti dico che l'oggi ha creduto in se stesso, altrimenti cedeva.
Oggi, piccina mia, Gioia,
ama il tuo essere dove adesso vive.
Non esiste un Dio speciale cui rivolgersi; o se c'è,
allora perché t'ho fatto crescere altrove.
Tu non riconoscevi la mia voce
quando tornavo a casa a trovarti.
Tutti i superlativi
di alberi di Natale e vischi del futuro
non ti aiuteranno a sapere le feste che hai perduto.
Nel tempo che non amai me stessa
venni in visita a te su marciapiedi spalati,
mi tenevi per un guanto.
Dopo questo fu di nuovo neve.
Mi hanno spedito lettere con tue notizie
e io cucivo mocassini che non avrei mai usato.
Quando cominciai a sopportarmi
andai a stare con la mamma. Troppo tardi,
troppo tardi, dissero le streghe, per stare con la mamma.
Non me ne sono andata.
Ma un ritratto mi son fatto.
Dal manicomio nel parziale ritorno
venni alla casa di mia madre a Gloucester.
Ed ecco come venni ad abbrancarla,
ed ecco come venni a perderla.
Mia madre disse, per il suicidio io non posso dar perdono.
Non l'hai mai potuto.
Ma un ritratto lei m'ha fatto.
Ho vissuto da ospite rabbioso,
parzialmente rammendata, bimba esorbitante.
Ricordo che mia madre faceva del suo meglio.
Mi portò a Boston per farmi cambiare il taglio.
Sorridi come tua madre, disse il capocciante.
Non mi pareva interessante.
Ma un ritratto mi son fatto.
C'era una chiesa là dove sono cresciuta,
là in bianchi armadi fummo inchiavati
come coro di marinai, o puritani, irreggimentati.
Mio padre passava col piattino per la questua.
Dissero le streghe, troppo tardi per esser perdonata.
E non fui propriamente perdonata.
Ma un ritratto m'hanno fatto.
Quell'estate gettiti irrigui s'inarcavano
a pioggia sull'erba rivierasca.
Parlavamo di siccità
mentre il prato corroso dal salmastro
nuovamente raddolciva.
Per passare il tempo falciavo l'erba
e la mattina mi facevo fare il ritratto,
fissando il sorriso nella formalità.
Ti ho spedito il disegnino di un coniglio,
e una cartolina col Motif number one
come se fosse normale
essere madre ed essersene andata.
Hanno appeso il ritratto nella fredda luce
del lato nord, che bene mi si addice,
per farmi stare bene.
Soltanto mia madre s'ammalò.
Mi volse le spalle, come se la morte contagiasse,
come se la morte si riflettesse,
come se il mio morire l'avesse corrosa.
Ad agosto avevi due anni, ma era dubbio il calcolo dei giorni.
Il primo settembre mi guardò in faccia
e mi disse che le avevo attaccato il cancro.
Le mozzarono le colline dolci
e ancora non avevo la risposta.
Quell'inverno lei tornò
parziale ritorno
alla sterile suite
di medici, nauseante
crociera di raggi X,
l'aritmetica delle cellule impazzita.
Parziale intervento,
braccio grasso, prognosi infausta,
li ho sentiti dire.
Durante le burrasche marine
lei si fece fare il ritratto.
Caverna di uno specchio,
appeso al lato sud;
una coppia di sorrisi, una copia di lineamenti.
E tu mi assomigliavi sconosciuto
viso mio, tu lo indossavi.
Dopotutto eri mia.
Ho svernato a Boston,
sposa senza figli,
niente di dolce da spartire,
con le streghe a fianco.
Ho perduto la tua infanzia,
tentato un altro suicidio,
subito il secondo hotel dei sigilli.
M'hai fatto un Pesce d'Aprile.
Abbiamo riso insieme, fu cosa buona.
Per l'ultima volta m'hanno dimesso
il primo maggio;
laureata in casi mentali,
con l'assenso dell'analista,
un libro finito di versi,
la macchina da scrivere e le borse.
Quell'estate imparai a rimettere vita
nelle mie sette stanze,
andavo su barchette a cigno, al mercato,
rispondevo al telefono,
da brava moglie offrivo da bere,
facevo l'amore fra crinoline e abbronzature d'agosto.
E tu venivi ogni weekend. No, mento.
Venivi di rado. Fingevo che c'eri
bimba farfalla, porcellina
guance di gelatina,
tre anni di disobbedienza,
ma splendida sconosciuta.
E dovevo imparare
perché volevo morire invece che amare,
perché mi faceva male la tua innocenza,
e perché accumulo le colpe
come un giovane internista
rivela i sintomi e la certa evidenza.
Quel giorno d'ottobre che andammo a Gloucester
le colline rosse mi ricordavano
la pelliccia di volpe rossa sdrucita
in cui giocavo da bambina,
immobile come un orso, una tenda,
una gran caverna che ride, pelliccia di volpe rossa.
Oltrepassammo il vivaio dei pesci,
il baracchino dove vendono l'esca,
Pigeon Cove, lo Yacht Club,
Squall Hill, verso la casa in attesa
ancora, la casa sul mare.
E due ritratti sono appesi su opposte pareti.
Al lato nord il mio sorriso al suo posto è fissato,
risalta nell'ombra il mio viso ossuto.
Mentre posavo lì cosa avevo sognato
tutta me negli occhi in attesa,
il giovane viso, la zona del sorriso,
trappola per volpi.
Al lato sud il suo sorriso al suo posto è fissato,
le guance vizze come orchidee appassite;
mio specchio beffardo, mio amore spodestato,
mia immagine prima. Mi occhieggia dal ritratto
quella testa di morte impietrita
che avevo sopraffatto.
L'artista ci fissò alla svolta;
si sorrideva inquadrate nelle tele
prima di scegliere strade da prima separate.
La pelliccia di volpe rossa doveva esser bruciata.
Mi decompongo sulla parete
come Dorian Grey.
E questa fu caverna di uno specchio,
una donna sdoppiata che si fissa
come se il tempo l'avesse impietrita
- due signore in terra d'ombra assise -
Hai dato un bacio alla nonna,
e lei ha pianto.
Non potevo tenerti
tranne il weekend. Ogni volta venivi
stringendo il disegnino del coniglio
che ti avevo spedito. Per l'ultima volta
disfo i tuoi bagagli. Ci tocchiamo senza un contatto.
La prima volta hai chiesto il mio nome.
Ora rimani per sempre. Dimenticherò
che sbalzavamo cozzandoci come marionette
appese a fili. Non era l'amore
ridursi al weekend.
Ti sbucci le ginocchia, impari il mio nome,
traballando sul marciapiede piangi e chiami.
Mi chiami mamma e ricordo ancora mia madre,
che altrove, nei dintorni di Boston, muore.
Ricordo che ti chiamammo Gioia
per poterti chiamare gioia.
Arrivasti come un ospite imbarazzato
allora, tutta fasciata umida meraviglia
alla mia mammella pesante.
Avevo bisogno di te. Non volevo un maschio,
solo una femmina, un topino lattoso di bimba,
da sempre amata, da sempre esuberante
nella casa di se stessa. Ti chiamammo Gioia.
Io, che non fui mai certa d'esser femmina,
avevo bisogno di un'altra vita,
di un'altra immagine per ricordarmi.
E fu questa la mia più grave colpa;
tu non potevi curarla o lenirla.
Ti ho fatta per trovarmi.

lunedì 22 novembre 2010

La Poesia è la Musica dell'anima di Fabrizio De Andrè

Gentileschi/Santa Cecilia
La poesia è la musica dell'anima...
Tutto possiede in sè della poesia.
I poeti altro non sono che dei musicisti
che suonano le melodie che
provengono dal cuore,
con strumenti diversi da quelli convenzionali..
Uomini che sanno trarre dalle cose
un significato profondo,
un afflato sensibile solo a pochi,
non percepibile da tutti
e lo trasformano in parole...
Alchimisti dell'anima

domenica 21 novembre 2010

Se tu mi dimentichi di Pablo Neruda

Giulio Aristide Sartorio Voglio che tu sappia
Una cosa.
Tu sai com’è questa cosa:
se guardo
la luna di cristallo, il ramo rosso
del lento autunno alla mia finestra,
se tocco
vicino al fuoco
l’impalpabile cenere
o il rugoso corpo della legna,
tutto mi conduce a te,
come se ciò che esiste
aromi, luce, metalli,
fossero piccole navi che vanno
verso le tue isole che m’attendono.
Orbene,
se a poco a poco cessi di amarmi
cesserò d’amarti poco a poco.
"Se d’improvviso
mi dimentichi,
non cercarmi,
chè già ti avrò dimenticata"
Se consideri lungo e pazzo
il vento di bandiere
Che passa per la mia vita
e ti decidi
a lasciarmi sulla riva
del cuore in cui ho le radici,
pensa
che in quel giorno,
in quell’ora,
leverò in alto le braccia
e le mie radici usciranno
a cercare altra terra.
Ma
se ogni giorno,
ogni ora
senti che a me sei destinata
con dolcezza implacabile.
Se ogni giorno sale
alle tue labbra un fiore a cercarmi,
ahi, amor mio, ahi mia,
in me tutto quel fuoco si ripete,
in me nulla si spegne né si dimentica,
il mio amore si nutre del tuo amore, amata,
e finchè tu vivrai starà tra le tue braccia
senza uscire dalle mie.
(Ciao Gronde, la zia ti pensa sempre.)

sabato 20 novembre 2010

Il ponte sull'Aposa di Giovanni Pascoli

Giovanni Sottocornola/Muratore/1891 Bologna, 20 Novembre
Aposa trista! Il povero al tuo ponte
sosta, e non altri. Siede sul sedile,
né guarda: non a valle non a monte:
non alle torri lunghe e sdutte, che oggi
sfumano in grigio, non a quelle file
d'alti cipressi tra i castagni roggi:
ascolta, a capo chino, ad occhi bassi,
te che laggiù brontoli cupa, e passi.
A te vengono gli uomini infelici,
Aposa trista! E nella solitaria
notte a qualcuno tristi cose dici.
T'ascolta a lungo. E poi, quando una foglia
secca di platano, a un brivido d'aria,
sembra un fruscìo di gonna su la soglia:
ecco, quell'uomo non è più: dirupa...
tu passi, e dopo un po' brontoli cupa.
Aposa trista! E l'Aposa risponde:
- Vien l'usignolo, a marzo, tra le acace!
Al gorgoglìo delle mie picciole onde
sta prima attento, a lungo impara, e tace.
Ma poi di canto m'empie le due sponde;
e il canto suo già mio singulto fu.
Canta al suo nido, al nido suo di fronde,
di quelle fronde che cadono giù... -
(Appendice Diario Autunnale V - 1907)

venerdì 19 novembre 2010

La fine di David Herbert Lawrence

Kirchner*1911
Se avessi potuto tenerti nel mio cuore,
se solo avessi potuto in me avvolgerti,
quanto sarei stato felice!
Ma ora la carta della memoria davanti
una volta ancora mi srotola il corso
del nostro viaggio sin qui,qui dove ci separiamo.
E dire che tu non sei mai,mai stata
una qualche tua realtà,amor mio,
e mai alcuna delle tue varie facce ho visto!
Eppure esse mi vengono e vanno avanti,
e io forte piango in quei momenti.
Oh, mio amore, come stanotte fremo per te,
pur senza più speranza alcuna
di alleviar la sofferenza o ricompensarti
per tutta una vita di desiderio e disperazione.
Riconosco che una parte di me è morta stanotte!

giovedì 18 novembre 2010

Hortus Larvarum di Gabriele D'Annunzio

Dewing/1902
 Il bel giardino in tempi assai lontani
occultamente pare lontanare.
Le fonti, chiare di chiaror d’opale,
fan ne la calma suoni dolci e strani.
Nei roseti le rose estenuate
cadono, quasi non odoran più.
L’Anima langue. I nostri sogni vani
chiamano i tempi che non sono più.
O danze, arie di tempi assai lontani,
voi che in qualche dimora secolare
facean su ’l virginale risonare
dolentemente così bianche mani:
mani di donna avida ancor d’amare,
non più giovine, non amata più:
e voi movete questi sogni vani,
arie di tempi che non sono più!
O profumi di tempi assai lontani,
voi che nel fondo de le vuote fiale
lasciaste la dolcezza essenziale
così che par che un spirito n’emani
(forse ne le segrete anime tale
un sol ricordo non vanisce più):
e voi guidate i nostri sogni vani,
profumi, ai tempi che non sono più!
O figure di tempi assai lontani,
voi che il tessuto pallido animate,
ninfe su fiumi, cacciatrici armate
dietro bei cervi in bei boschi pagani
(Delia, taluno a notte alta, d’estate,
te rimirando non dormiva più):
e voi ridete in questi sogni vani
come nei tempi che non sono più!
E tu vissuta in tempi assai lontani,
donna, come le tue danze obliate,
come i profumi tuoi ne le tue fiale,
donna che avevi così bianche mani,
tu che moristi avida ancor d’amare,
non più giovane, non amata più,
oggi tu passa in questi sogni vani,
morta dei tempi che non sono più!
(Poema paradisiaco)

mercoledì 17 novembre 2010

Il giorno diventò piccolo di Emily Dickinson

William H. Hunt*Wife Edith
Il Giorno diventò piccolo, circondato tutto
Dalla precoce, incombente Notte -
Il Pomeriggio in Sera profonda
La sua Gialla brevità distillò -
I Venti smorzarono i loro passi marziali
Le Foglie ottennero tregua -
Novembre appese il suo Cappello di Granito
A un chiodo di Felpa -

martedì 16 novembre 2010

Julia Miller di Edgar Lee Masters

Ernest Bieler/Michelle Bieler/1913 Bisticciammo quella mattina,
perchè lui aveva sessantacinque anni, e io trenta,
ed ero nervosa e greve del bimbo
la cui nascita mi atterriva.
Io pensavo all'ultima lettera scrittami
da quella giovane anima straniata
il cui abbandono nascosi
sposando quel vecchio.
Poi presi la morfina e sedetti a leggere.
Attraverso l'oscurità che mi scese sugli occhi
io vedo ancora la luce vacillante di queste parole:
"E Gesù gli disse: In verità
io ti dico, Oggi tu
sarai con me in paradiso".

lunedì 15 novembre 2010

Autunno di Corrado Govoni

Fechin
Sono tutto sfibrato
dalla dura fatica solitaria
di estrar la luce calda di una donna
che non scorresse via piangendo
agghiacciandomi piedi mani e cuore
da tutto questo fango acquoso intorno
fervente sfortunato inetto
mentre un seno rideva perfetto
e dalla bruna fragola del capezzolo
toglievo l'ultimo sbrocco
l'altro restava brutto e cieco
come una piccola noce di cocco
gloriosamente nuda era una gamba
ma l'altra era ammorsata
in un'atroce gonna
di stracci da lanterne ferroviarie
gli occhi erano due pure acquemarine
ma la lepre barbaramente uccisa
da me col calcio del fucile
si vendicava sopra la sua bocca
tetragona all'orrore dei miei baci
a farmi buio deluso nel sangue
dai vetri d'inverno filato
col mio volto di pesce asciugato
annunciata dai galli
di nausea dei fanali
ti aspetto come un'alba sporca o nebbia.
(Pellegrino d'amore)

domenica 14 novembre 2010

Sempre più difficile di Erich Fried

Jeunesse dorèe/Gerald Leslie Brockhurst/1942
Vederti una volta sola
e poi mai più
dev’essere più facile
che vederti ancora una volta
e poi mai più
Vederti ancora una volta
e poi mai più
dev’essere più facile
che vederti ancora due volte
e poi mai più
Vederti ancora due volte
e poi mai più
dev’essere più facile
che vederti ancora tre volte
e poi mai più
Ma io sono uno sciocco
e voglio vederti
ancora molte volte
prima
di non poterti vedere
mai più.

sabato 13 novembre 2010

L'uscita mattutina di Giorgio Caproni

Rolf Armstrong/Hello/1929
Come scendeva fina
e giovane le scale Annina!
Mordendosi la catenina
d'oro, usciva via
lasciando nel buio una scia
di cipria, che non finiva.
L'ora era di mattina
presto, ancora albina.
Ma come s'illuminava
la strada dove lei passava!
Tutto Cors'Amedeo,
sentendola, si destava.
Ne conosceva il neo
sul labbro, e sottile
la nuca e l'andatura
ilare - la cintura
stretta, che acre e gentile
(Annina si voltava)
all'opera stimolava.
Andava in alba e in trina
pari a un'operaia regina.
Andava col volto franco
(ma cauto, e vergine, il fianco)
e tutta di lei risuonava
al suo tacchettio la contrada.
(Il seme del piangere)

venerdì 12 novembre 2010

Giorno di Novembre di Rainer Maria Rilke

Rackham Il freddo autunno ha imbavagliato il giorno.
Taccion le sue mille voci festanti;
giù dalla torre della cattedrale
campane a morto, nella nebbia, gemono
Sovra gli umidi tetti si distende
candido, in sonno, un fulgido vapore.
Con le gelide dita il vento batte
entro la gola del camino, a stormo,
gli ultimi accordi d'una marcia funebre.

giovedì 11 novembre 2010

L'estate di San Martino di Cesare Pavese

Dna Amalia Gutierrez Solana Ved. De Perez Minguez/Solana/1924 Le colline e le rive del Po sono un giallo bruciato
e noi siamo saliti quassù a maturarci nel sole.
Mi racconta costei - come fosse un amico -
Da domani abbandono Torino-
e non torno mai più.
Sono stanca di vivere tutta la vita in Prigione.
Si respira un sentore di terra e, di là dalle piante,
a Torino, a quest'ora, lavorano tutti in prigione.
Torno a casa dei miei dove almeno potrò stare sola
senza piangere e senza pensare alla gente che vive.
Là mi caccio un grembiale e mi sfogo in cattive risposte
ai parenti e per tutto l'inverno non esco mai più.
Nei paesi novembre è un bel mese dell'anno:
c'è le foglie colore di terra e le nebbie al mattino,
poi c'è il sole che rompe le nebbie. Lo dico tra me
e respiro l'odore di freddo che ha il sole al mattino.
Me ne vado perché è troppo bella Torino a quest'ora:
a me piace girarci e vedere la gente
e mi tocca star chiusa finché è tutto buio
e la sera soffrire da sola.
Mi vuole vicino
come fossi un amico: quest'oggi ha saltato l'ufficio
per trovare un amico.
Ma posso star sola così?
Giorno e notte - l'ufficio - le scale - la stanza da letto -
se alla sera esco a fare due passi non so dove andare
e ritorno cattiva e al mattino non voglio più alzarmi.
Tanto bella sarebbe Torino - poterla godere -
solamente poter respirare.
Le piazze e le strade
han lo stesso profumo di tiepido sole
che c'è qui tra le piante. Ritorni al paese.
Ma Torino è il piú bello di tutti i paesi.
Se trovassi un amico quest'oggi, starei sempre qui.

mercoledì 10 novembre 2010

Se quant'ero felice di Emily Dickinson

Decker*Lady in grey
Se quant'ero felice potessi dimenticare
Ricordare quanto sono triste
Sarebbe una trascurabile avversità
Ma il rammentarsi della Fioritura
Porta a rendere il Novembre difficile
Fin quando io che ero quasi audace
Perderò la strada come una Bimbetta
E morirò di freddo.

martedì 9 novembre 2010

Nero di Mario Luzi

Josè Gutierrez Solana
Ma ecco l'ora della notte, quando
dal profondo dello spazio si sporge
il volto della terra scarruffato,
impervio, che dobbiamo consolare
noi con le nostre veglie tristi e i lumi
fiochi di un firmamento cittadino.
Il vento degli abissi neri e viola
agita gli orti risecchiti, porta
il gemito per le vie dei gatti,
sbatte le imposte sconficcate, fuori
delle pareti chi s'attenta vede
il vento, la lanterna, gli ubriachi.
Dici, che m'ha portato questo giorno?
o nulla o poco più di quel che lascia
apparire e sparire
nei giorni bassi ostinati
la cortina di pioggia aperta e chiusa,
alberi, brani di città, carriaggi,
persone, pioggia nella pioggia, fumo.

lunedì 8 novembre 2010

Flossie Cabanis di Edgar Lee Masters

Joseph De Camp Dal nostro teatro di Bindle
a Broadway c'è un gran passo.
Io volli farlo, la mia ambizione si accese
quando, a sedici anni,
nel villaggio sentii recitare East Lynne
da Ralph Barrett, il giovane
attore romantico, che mi ammaliò.
Tornai a casa, è vero, un relitto finito,
quando Ralph scomparve a New York,
abbandonandomi sola -
ma la vita finì anche lui.
In questo luogo di silenzio
non ci sono spiriti fratelli.
Come vorrei che la Duse si ergesse nel pathos
di questi campi tranquilli
e leggesse queste parole.

domenica 7 novembre 2010

Vento sulla Mezzaluna di Eugenio Montale

McClelland Barclay Edimburgo
Il grande ponte non portava a te.
T’avrei raggiunta anche navigando
nelle chiaviche, a un tuo comando. Ma
già le forze, col sole sui cristalli
delle verande, andavano stremandosi.
L’uomo che predicava sul Crescente
mi chiese «Sai dov’è Dio?». Lo sapevo
e glielo dissi. Scosse il capo. Sparve
nel turbine che prese uomini e case
e li sollevò in alto, sulla pece.
(La Bufera e altro II)

sabato 6 novembre 2010

Canzone d'Autunno di Federico Garcia Lorca

Rolf Armstrong/1933
Oggi ho nel cuore
un vago tremolio di stelle
ma il mio sentiero si perde
nell'anima della nebbia.
La luce mi tronca le ali
e il dolore della mia tristezza
bagna i ricordi
alla fonte dell'idea.
Tutte le rose sono bianche,
bianche come la mia pena,
e non sono rose bianche,
è scesa la neve su di loro.
Prima ebbero l'arcobaleno.
E nevica anche sulla mia anima.
La neve dell'anima
ha fiocchi di baci
e scene calate nell'ombra
o nella luce di chi le pensa.
La neve cade dalle rose,
ma quella dell'anima rimane
e gli artigli del tempo
ne fanno un sudario.
La neve si scioglierà
quando verrà la morte?
O avremo altra neve
e altre rose piú perfette?
Sarà con noi la pace
come c'insegna Cristo?
O forse il problema
non sarà mai risolto?
Ma se c'inganna l'amore?
Cosa sosterrà la nostra vita
se il crepuscolo ci affonda
nella vera scienza
del Bene che chi sa se esiste
e del Male che incombe alle spalle?
Se muore la speranza
e risorge la Babele,
quale torcia farà luce
sulle strade in Terra?
Se l'azzurro è un sogno,
dove mai finirà l'innocenza?
Cosa mai sarà il cuore
se l'Amore non ha frecce?
Se la morte è la morte,
dove finiranno mai i poeti
e le cose addormentate
che nessuno più ricorda?
Oh sole di tante speranze!
Acqua chiara! Luna nuova!
Cuori dei bambini!
Anime rudi delle pietre!
Oggi ho nel cuore
un vago tremolio di stelle
e tutte le rose sono bianche
bianche come la mia pena.
(Granada, novembre 1918)

venerdì 5 novembre 2010

Alla stazione in una mattina d'autunno di Giosuè Carducci

Gustav Klimt
Oh quei fanali come s'inseguono
accidïosi là dietro gli alberi,
tra i rami stillanti di pioggia
sbadigliando la luce su 'l fango!
Flebile, acuta, stridula fischia
la vaporiera da presso. Plumbeo
il cielo e il mattino d'autunno
come un grande fantasma n'è intorno.
Dove e a che move questa, che affrettasi
a' carri foschi, ravvolta e tacita
gente? a che ignoti dolori
o tormenti di speme lontana?
Tu pur pensosa, Lidia, la tessera
al secco taglio dài de la guardia,
e al tempo incalzante i begli anni
dài, gl'istanti gioiti e i ricordi.
Van lungo il nero convoglio e vengono
incappucciati di nero i vigili,
com'ombre; una fioca lanterna
hanno, e mazze di ferro: ed i ferrei
freni tentati rendono un lugubre
rintocco lungo: di fondo a l'anima
un'eco di tedio risponde
doloroso, che spasimo pare.
E gli sportelli sbattuti al chiudere
paion oltraggi: scherno par l'ultimo
appello che rapido suona:
grossa scroscia su' vetri la pioggia.
Già il mostro, conscio di sua metallica
anima, sbuffa, crolla, ansa, i fiammei
occhi sbarra; immane pe 'l buio
gitta il fischio che sfida lo spazio.
Va l'empio mostro; con traino orribile
sbattendo l'ale gli amor miei portasi.
Ahi, la bianca faccia e 'l bel velo
salutando scompar ne la tènebra.
O viso dolce di pallor roseo,
o stellanti occhi di pace, o candida
tra' floridi ricci inchinata
pura fronte con atto soave!
Fremea la vita nel tepid'aere,
fremea l'estate quando mi arrisero;
e il giovine sole di giugno
si piacea di baciar luminoso
in tra i riflessi del crin castanei
la molle guancia: come un'aureola
piú belli del sole i miei sogni
ricingean la persona gentile.
Sotto la pioggia, tra la caligine
torno ora, e ad esse vorrei confondermi;
barcollo com'ebro, e mi tócco,
non anch'io fossi dunque un fantasma.
Oh qual caduta di foglie, gelida,
continua, muta, greve, su l'anima!
io credo che solo, che eterno,
che per tutto nel mondo è novembre.
Meglio a chi 'l senso smarrí de l'essere,
meglio quest'ombra, questa caligine:
io voglio io voglio adagiarmi
in un tedio che duri infinito.

giovedì 4 novembre 2010

Trarre insegnamento di Gunter Kunert

Otto Dix*Ritratto di prigioniero*1945
(In memoria di Primo Levi)
Dagli ultimi mucchi di cadaveri
una voce grida: Scarpe!
Le scarpe sono più importanti del cibo!
Chi non prosegue
viene ucciso. Poiché
il procedere è prezioso
per colui che
non riuscì a sfuggire
in tempo al nostro secolo
strascicando il passo
un candidato alla morte dopo l’altro
rabbrividendo miseramente poiché
il debole fuoco della vergogna dei posteri
non riscalderà più alcuno.

mercoledì 3 novembre 2010

Ai morenti basta poco di Emily Dickinson

Gustave Leonard De Jonghe
Ai Morenti basta poco, Caro,
Un Bicchiere d'Acqua è tutto,
Il Volto discreto di un Fiore
A punteggiare la Parete,
Un Ventaglio, forse, il Pianto d'un Amico
E la Certezza che qualcuno
Nessun colore nell'Arcobaleno
Percepirà, quando te ne sarai andato -

martedì 2 novembre 2010

Nel di' de' morti di Iginio Ugo Tarchetti

Antonio Lopez Garcia/Al cimitero/1959 Suonano a festa: olezzan di viole
le morte zolle e si allegra la terra;
cantando augelli, sfogliansi le aiuole...
Taccioni i morti e dormono sotterra.
Inverno riede; Autunno, come suole,
l'ultime gemme de' fiori disserra,
ronzano insetti e volteggiano al sole...
Taccioni i morti e dormono sotterra.
Dormono stesi, immobili, stecchiti
nell'umido, che stilla entro la fossa,
col lenzuol roso e co' stinchi imbianchiti.
O padre mio, una voce mi dice
e mi suona nell'anima commossa
che tu sei morto e non fosti felice!
Che felice non fosti! È questo ingrato
Rimembrar che la mia vita addolora,
È il rimembrar che de’ tuoi cari il fato
Non allietò la tua fredda dimora;
Ma dimmi, per le lacrime, che dato
Mi fia versar su la tua fossa ancora,
D’un’altra vita, in forme altri rinato,
Vedesti o vedi una più lieta aurora?
Dimmi: pel duolo ond’è l’anima oppressa
Per il negro avvenir, che m’impaura,
È una mercede alla virtú concessa?
Ma tutto è muto! - Il sol dall’alto sferra
Gli ultimi raggi, e sorride natura...
Tacciono i morti e dormono sotterra.
(dalla raccolta Disjecta/1879).

lunedì 1 novembre 2010

Thanatos Athanatos di Salvatore Quasimodo

Villegas Cordero/La Creazione E dovremo dunque negarti, Dio
dei tumori, Dio del fiore vivo,
e cominciare con un no all'oscura
pietra «io sono», e consentire alla morte
e su ogni tomba scrivere la sola
nostra certezza: «thànatos athànatos»?
Senza un nome che ricordi i sogni
le lacrime i furori di quest'uomo
sconfitto da domande ancora aperte?
Il nostro dialogo muta; diventa
ora possibile l'assurdo. Là
oltre il fumo di nebbia, dentro gli alberi
vigila la potenza delle foglie,
vero è il fiume che preme sulle rive.
La vita non è sogno. Vero l'uomo
e il suo pianto geloso del silenzio.
Dio del silenzio, apri la solitudine.