Henry M.SiddonsDa che l'Angelo mio più non mi veglia,
può libere spiegar, volando, l'ali;
e fendere il silenzio delle stelle.
Ché le trepide mani egli levare
non deve più su le mie notti sole,
da che l'Angelo mio più non mi veglia.
Da che l'Angelo mio più non mi veglia,
da che lo espulse, dopo l'alba, il giorno,
il nostalgico volto ci spesso inclina
verso la terra; e più non ama il cielo.
può libere spiegar, volando, l'ali;
e fendere il silenzio delle stelle.
Ché le trepide mani egli levare
non deve più su le mie notti sole,
da che l'Angelo mio più non mi veglia.
Da che l'Angelo mio più non mi veglia,
da che lo espulse, dopo l'alba, il giorno,
il nostalgico volto ci spesso inclina
verso la terra; e più non ama il cielo.
Da questa grama realtà vorrebbe
le mie pallide preci ancora addurre
per lo svettante murmure dei boschi
al paese, lassù, dei Cherubini.
Il mio pianto di bimbo, vi recava,
le mie piccole pene e le preghiere.
Crebbero quivi in esili boschetti,
che sovra lui sussurrano.
Se nel meriggio della vita, un giorno,
tra 'l chiasso delle fiere e dei mercati,
avvenga ch'io dimentichi, repente,
il fiorito pallor del mio mattino
(l'Angelo mio custode, pensieroso:
la sua bontà, la tunica di neve,
le sue mani congiunte alla preghiera,
il cenno della destra a benedirmi)
nel più arcano de' sogni io serberò
l'immagine dell'ali ripiegate,
che a tergo gli svettavano siccome
un gran cipresso bianco.
Le mani sue, rimangono; siccome
rondini cieche, che, dal sole illuse,
(mentre gli stormi trassero pei mari
dove pur sempre aulisce Primavera)
sui rami secchi d'un albero ignudo
lottano contro i soffi dei rovaio.
Un pudico rossore le sue guance
invermigliava come di fanciulla,
che sul buio dell'anima allo sposo
grevi coltri di porpora distenda.
E avea negli occhi una fulgida vampa,
quasi d'aurora. - Ma su tutto, immense,
svettavan l'ali a navigargli il cielo.
le mie pallide preci ancora addurre
per lo svettante murmure dei boschi
al paese, lassù, dei Cherubini.
Il mio pianto di bimbo, vi recava,
le mie piccole pene e le preghiere.
Crebbero quivi in esili boschetti,
che sovra lui sussurrano.
Se nel meriggio della vita, un giorno,
tra 'l chiasso delle fiere e dei mercati,
avvenga ch'io dimentichi, repente,
il fiorito pallor del mio mattino
(l'Angelo mio custode, pensieroso:
la sua bontà, la tunica di neve,
le sue mani congiunte alla preghiera,
il cenno della destra a benedirmi)
nel più arcano de' sogni io serberò
l'immagine dell'ali ripiegate,
che a tergo gli svettavano siccome
un gran cipresso bianco.
Le mani sue, rimangono; siccome
rondini cieche, che, dal sole illuse,
(mentre gli stormi trassero pei mari
dove pur sempre aulisce Primavera)
sui rami secchi d'un albero ignudo
lottano contro i soffi dei rovaio.
Un pudico rossore le sue guance
invermigliava come di fanciulla,
che sul buio dell'anima allo sposo
grevi coltri di porpora distenda.
E avea negli occhi una fulgida vampa,
quasi d'aurora. - Ma su tutto, immense,
svettavan l'ali a navigargli il cielo.
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