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Albrecht Dürer |
Era un giorno del tempo, un mattino d’estate
e ventilava il mare aperto il suo rigoglio.
Diranno ancora “amate” i poeti di corte
e la fede che prospera più cieca dell’orgoglio?
Quel giorno a Hiroshima fu decisa la morte.
Ora, se parla l’uomo, quale voce credente
sarà la sua nel chiedere la fede che spergiura?
Quel giorno a Hiroshima il tutto s’ebbe il niente
del suo potere, l’empio fu mai così pietoso.
Perché nascondi il volto in un volto ch’è ròso
dalla sua lebbra ardente? Ogni attimo minaccia
la grazia ch’ebbe il soffio del suo fango mortale.
Quel giorno a Hiroshima si rovesciò la faccia
dell’uomo nell'atroce risguardo del suo male,
fu l’essiccata effigie dell’occhio che rintraccia
la tenebra perenne, addentro nel fulgore
d’un punto che vacilla ed è la sua pupilla.
Un ordine la mano che fissa il suo potere,
ma la voce era d’uomo che annienta le parole
per non udirle, e aspetta: rigurgita il cratere
di povere festùche umane che ogni fuoco
bastava a incenerire, il fuoco che riscalda
il gelo e la miseria degli ànditi di carta,
il tizzo del bambino che soffia sul suo gioco.
Forse i morti non seppero s’era caduto il sole.
Quell’attimo d’un solo grido taciuto anch’esso,
quell’attimo, la mira del fulmine che scarta
nel sibilo la luce e ne dirompe l’iride.
L’abbaglio ammonitore è fermo nella salda
tenacia del ricordo: s’illumini il regresso
dell’uomo al suo patire, con le sue mani livide
la fredda guerra ci offra un òbolo di pace.
Passo su passo apprende che è
sua la morte, l’uomo
avviato a riceverla. Quello che vede e ascolta
gli è proprio, l’insolenza d’avere in sè rivolta
per luce la sua faccia, ed il cammino, il verde
dei prati avrà memoria nel tempo, in ogni luogo.
Lascia cadendo un segno. Leggenda o storia, il rogo
dell’aria esalta innalza la vittima che perde.
Ma Hiroshima è l’arido sepolcro d’una culla,
la cenere d’un mondo che non dice più nulla.
La vittima non trova il volto da passare
al tempo che gli porti memoria dei suoi giorni
e la speranza, il credere per essere creduto.
L’abbaglio ammonitore è fisso in quel che appare,
è la notizia, il nuovo colpito dal suo segno,
il buco che s’allarga bruciando dai contorni
come un’orbita vuota: la storia è l’accaduto
che non dà voce e favola, che non tramanda un pegno
silente di memoria...
Ma dov’è la fanciulla
discesa al suo giardino movendo dai tranquilli
passi lo sguardo intorno? Trafitta dagli spilli
dell’iride sublime rifulse nell’evento
della sua luce, fusa. Non ebbe il suo momento,
all’attimo fu tolta, tentò l’assurdo plagio
di somigliarsi, piaga devota al suo contagio.
Non sarà più fanciulla, nemmeno il nostro amore
può ricordarla umana, distinguerle nel volto
mucoso gli occhi ciechi che videro in quel nulla.
Ma dov’è la vittoria che annunci al vincitore
quest’ibrido raccolto di lèmuri e di gechi?
E non sarà la morte chi non è più l’amore,
ma il suo fantasma, l’empio ludibrio che s’addìta.
Per essere d’esempio all’ultimo terrore
che la sua mano suscita, per piangere più forte
del pianto, del suo pianto, la vittima è la sola
speranza che non mente. Non è pietà, parola
dell’anima tradita. E’ la sua carne sola
quest'ululo fuggente...
Attendere nel baco il seme da seccare,
la genesi demente che inverte il suo potere:
è questo da chiamare speranza per la fede
riposta nel terrore?
L'ipocrita paciere contratta lo sgomento
dell'uomo con l'offesa di chiedergli a misura
del peggio il suo contento, la scelta del volere
giustizia per sventura.
Questo chiede la terra: giustizia per sventura,
pane per fame, sete, ragione d'una guerra
che in sè non ha ragione per chiudere le mura
dell'assedio perenne, ragione d'una pace
che in sè non ha perdono d'arrendersi all'abiura.
L'uomo non è l'indenne saggezza del dolore.
Il fuoco non è brace.
Quest'uomo atteso a cedere il suo dolore antico,
a dirsi vinto e inerme, ha il volto del nemico
che logora il suo solco paziente e che non cede.
Ha l’arma della soma che porta e che misura
il suo passo dolente, il padre da chiamare
e se stesso nel figlio, la traccia del suo piede.
E’ l’uomo che vi esaspera tacendo con la pura
tristezza dello sguardo e che vi aspetta al fare.
Fatelo dunque il male, credetegli, spendete
la moneta sonante del rogo d’Hiroshima.
Ogni assetato resta a chiedere la sete,
sull’ultima parola ritornerà la prima
che avvenne nel chiamarci. Fatelo tutto il male,
credetegli, spendete la sua scienza beffarda.
La morte più non basta, demente irrisa guarda
la genesi una bianca eternità di sale.
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(La storia delle vittime-1962*1965)