|
Manet |
voce dai palazzi.
E tu, se d’echeggianti
Valli, o borea, dal grembo, o errando in selva
Di pin canora, o stretto in chiostri orrendi,
Voce d’umani pianti
E sibilo di tibie e de la belva
Ferita il rugghio in mille suoni rendi,
Borea, mi piaci. E te, solingo verno,
Là su quell’alpe volentieri io scerno.
Una caligin bianca
Empie l’aër dormente, e si confonde
Co ’l pian nevato a l’orizzonte estremo.
Tenue rosseggia e stanca
Del sol la ruota, e tra i vapor s’asconde,
Com’occhio uman di sue palpèbre scemo.
E non augel, non aura in tra le piante,
Non canto di fanciulla o vïandante;
Ma il cigolar de’ rami
Sotto il peso ineguale affaticati
E del gel che si fende il suono arguto.
Canti Arcadia e richiami
Zefiro e sua dolce famiglia a i prati:
Me questo di natura altiero e muto
Orror piú giova. Deh risveglia, Eurilla,
Nel sopito carbon lieta favilla;
Ed in me la serena
Faccia converti e ’l lampeggiar del riso
Che primavera ove si volga adduce.
A la sonante scena
Poi ne attendono i palchi, ove dal viso
De le accolte bellezze ardore e luce
E da le chiome e da gl’inserti fiori
Spira l’april che rinnovella odori.
voce dai tuguri.
Oh se co ’l vivo sangue
Del mio cor ristorare io vi potessi,
Gelide membra del figliuolo mio!
Ma inerte il cor mi langue,
E irrigiditi cadono gli amplessi,
E sordo l’uomo ed è tropp’alto Iddio.
O poverello mio, la lacrimosa
Gota a la gota di tua madre posa.
Non de la madre al seno
Il tuo fratel posò: lenta, su ’l varco
Presse gli estremi aliti suoi la neve.
Da l’opra dura, pieno
Il dí, seguiva sotto iniquo carco
I crudeli signor co ’l passo breve;
E coll’uom congiurava a fargli guerra
L’aere implacato e la difficil terra.
Il nevischio battea
Per i laceri panni il faticoso;
E cadde, e sanguinando in van risorse.
La fame ahi gli emungea
L’ultime forze, e al fin su ’l doloroso
Passo lo vinse; e pia la morte accorse
Poi cadavero informe e dissepolto
Lo ritornâr sotto il materno volto.
Ahimè, con miglior legge
Ripara a schermo da la gelid’aura
Aquila in rupe e belva antica in lustre
Ed un covil protegge
Tepido i sonni ed il vigor restaura
A i can satolli entro il palagio illustre
Qui presso, dove de l’amor piú forte,
Figlio de l’uom, te mena il gelo a morte.
voce dalle sale.
Mescete, or via mescete
La vendemmia che il Ren vecchia conserva
Di sue cento castella incoronato.
Gorgogli con le liete
Spume a lo sguardo e giú nel sen ci ferva
Quel che il sol ne’ tuoi colli ha maturato
Cui ben Giovanna a l’Anglo un dí contese,
O di vini e d’eroi Francia cortese.
Poi ne rapisca in giro
La turbinosa danza. Oh di pompose
E bionde e nere chiome ondeggiamenti;
Oh infocato respiro
Che al tuo si mesce, o disvelate rose,
Oh accorti a fulminare occhi fuggenti;
Mentre per mille suoni a tempra insieme
L’acuta voluttà sospira e geme!
Dolce sfiorar co ’l labro
Le accese guance, e stringer mano a mano
E del seno su ’l sen le vive nevi,
E di sua sorte fabro
Ne l’orecchio deporre il caro arcano
De le sorrise parolette brevi,
E meditar cingendo il fianco a lei
De l’espugnata forma indi i trofei.
Che se di nostre feste
Scorra su l’util plebe il beneficio
E civil carità prenda augumento;
Mercé nostra, il celeste,
Che bene e mal partí, saldo giudicio
Ha di bella pietade alleggiamento.
Noi, del nostro gioir, beata prole,
Rallegriam l’universo a par del sole.
voce dalle soffitte.
Mancava il pan, mancava
L’opra sottile a reggere la vita;
E al freddo focolar sedea tremando,
E muta mi guardava,
Pallida mi guardava e sbigottita,
La madre: e un lungo giorno iva passando
Che perseguiami quel silenzio e 'l guardo,
Quand’io lassa discesi a passo tardo.
Piovea per la brumale
Nebbia lividi raggi alta la luna
In su ’l trivio fangoso, e dispariva
Dietro le nubi: tale
Di giovinezza il lume in su la bruna
Mia vita mesto fra i dolor fuggiva.
E la man tesi: e vidimi in conspetto
Osceni ghigni; e in cor mi scese un detto
Immane. Ahi, ma piú immane
Me, o superbi, premea la lunga fame
E il guardo e il viso de la madre antica.
Tornai: recai del pane:
Ma tacean del digiuno in me le brame,
Ma sollevare i gravi occhi a fatica
Sostenni; o madre, e nel tuo sen la fronte
Ascosi e del segreto animo l’onte.
Addio, d’un santo amore
Fantasie lacrimate, e voi compagne
Di questa infelicissima fanciulla!
A voi rida il candore
Del vel che la pia madre adorna e piagne,
E 'l pensier ch’erra a studio d’una culla.
Io derelitta io scompagnata seguo
Pur la traccia de l’ombre e mi dileguo.
voce di sotterra.
Taci, o fanciulla mesta;
Taci, o dolente madre, e l’affamato
Pargol raccheta ne la notte bruna.
Fiammeggia, ecco, la festa
Da’ vetri del palagio, ove il beato
De la libera patria ordin s’aduna,
E magistrati e militi tra’ suoni
E dotti ed usurier mesce e baroni.
De’ tuoi begli anni il fiore,
O fanciulla, intristí, chiedendo in vano
L’aer e l’amor ch’ogni animal desía;
Ma ride in quel bagliore
Di sete e d’òr, che con la bianca mano
La marchesa raccoglie e va giulía
In danza. Or pianga e aspetti pur, che importa?.
La prostituzïone a la tua porta.
Quel che ne la pupilla
Del figliol tuo gelò supremo pianto
Che tu non rasciugasti, o madre trista,
Gemma s’è fatto e brilla
Tra ’l nero crin de la banchiera. E intanto
Il leggiadro e soave economista
A lei che ride con la rosea bocca
Sentenze e baci dissertando scocca.
Gioite, trïonfate,
O felici, o potenti, o larve! e quando
Il sol nuovo la plebe a l’opre caccia,
Uscite e dispiegate,
Pur la mal digerita orgia ruttando.
Le vostre pompe a’ suoi digiuni in faccia;
E non sognate il dí ch’a l’auree porte
Batta la fame in compagnia di morte.
************
LEVIA GRAVIA*Libro II