William Paxton*1908 |
dalle cifre nette di giorno ed anno
ed epoca. Non ha importanza quando.
la via al profondo è spalancata,
e alla lingua del fuoco.
Non nella guazza che sazia trasecola
d’infiorescenze e neppure nei tronchi
degli alberi riempiti dall’amore,
ci son prove di questo nostro secolo.
Prendine un altro e vivi.
Per smarrimento dell’animo, per pecca
della vista, io sono ritornata
a errare nei viali del passato.
Come riconoscendomi, una vecchia
in disparte mi osserva.
E’ giorno alto e questo luogo è morto.
Ma nei crepuscoli gli occhi son liberi
di vedere una casa, ov’è felice
una famiglia, dove s’aman con trasporto
spropositatamente,
dove attendono sempre ospiti nuovi
ai compleanni, per rumoreggiare,
arrossire, far baciamani, dove
anche me invita una mano, ma dove
mai ospite sarò.
Ma se le loro voci tutte guizzi
posson farsi quiete d’onde e cielo,
di chi sono i fanciulli cinguettanti
sopra i tasti del piano? Di chi i pizzi
ruotan nella sventura?
Ma quando mai concessero la grazia
del saluto ch’è loro, di quel lento
dagli uomini orchestrato antico valzer,
antico segno d’un’altrui mestizia,
e d’un amore altrui?
E’ ancora possibile condurre giochi
per la mente e l’udito, dove agiscan
fiume, albero, vecchia, campo vuoto,
il paese con tre lumini opachi.
Il sorriso indistinto
dell’anima mi va errando là,
lontano, dov’è assenza di memoria,
nella contrada ch’è patria di errore,
di quello strano error che mi darà
estranea lingua e terra.
Ma il senno, per la tenebra in terrore,
ringhia, ritorna in sé, vuol risapere
il disegno distinto delle cose
che son vive, il mio giorno, le mie ore,
il mio tavolo, il letto.
Io vago ancora in un turbine mobile
di rugiade, ma sento l’anatema
che m’invia nel suo barbaro linguaggio,
serrato dentro un pugno irremovibile,
un transistor…
(trad. di G. Buttafava)
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