Il vento soffia e nevica la frasca,
e tu non torni ancora al tuo paese,
quando partisti, come son rimasta,
come l'aratro in mezzo alla maggese.

mercoledì 7 agosto 2013

Notte del 7 Agosto di Vittorio Locchi

Albert Edelfelt
Era tutto un arcobaleno
la cupola d'aria del Carso.
Brillavano le petraie
come ossami calcinati;
lontano l'Alpi Giulie
parevano domi incantati.
Tutti i monti più alti
si levavano il mantello bianco
e si scaldavano al sole,
mentre il vento co' i semi
passava per seminare.
Laggiù, nel piano, distante,
bianco e lucente il mare
era come una lancia
caduta a un lanciere gigante,
come ci son nelle fiabe.
E se il Calvario
non fioriva, se non fioriva
il Carso, sempre in tormento
sotto la furia dei colpi,
ci fiorivano tutti i cuori
seminati dalla speranza.
Si diceva: « Si va:
questa volta si va davvero!
Salteremo l'lsonzo
come caprioli;
chi ci terrà
quando sarà l'ora?
Tutti vogliamo esser primi
a baciare il manto celeste
di Santa Gorizia...

Chi dette il segnale?
Tutti i settori tacevano...
ed ecco sonare lo stormo.
Cominciarono le bombarde
con abbai, con rugli, con schianti.
Sbucavano dappertutto
coll'ali sui torsi pesanti:
traballavano in aria,
e poi giù, strepitando,
a divorar le trincere;
a stritolar i sassi,
a fondere i reticolati.
Uomini e melma,
ferri e pietre,
tutto tritavano, urlando,
tutto rimescolavano,
sfrangendo e pestando
come dentro le madie
gigantesche delle doline
impastassero il pane
della vittoria
per la fame del fante.


E il fante aveva fame:
fame di terra del Carso
più buona della pagnotta,
impastata di sangue,
cotta dalle granate,
benedetta dai fratelli
caduti colla bocca avanti
per baciarla morendo.

"Forza bombardiere,
- dicevano le trincere
colme d'elmi e di baionette: -
tu stronca, tu rimescola,
tu cuòcici la galletta;
e poi noi balzeremo
sul forno fumante,
stringendo la baionetta;
poi noi ci sazieremo 
nell'àgape attesa da tanto,
su la tavola dell'altipiano
su la tovaglia di porpora
che si stende fumando!"
E le bombarde tuonavano
nelle madie delle doline.

Ma quando tutte le bocche
dei cannoni cantarono,
all'ora fissata,
per completare la strage,
l'ansia strinse ogni gola,
e ognuno sentì
tonfare dentro il suo cranio,
come sopra un timpano
spaventoso
la romba.
Traballava la terra
come una casa di legno;
il cielo pareva incrinarsi
ogni tanto come cristallo;
pareva si dovesse
spezzare e precipitare
a schegge celesti ogni tanto
tra gli schianti e gli strepiti.
E su la prima linea
nessuno fiatava
sentendo sul core
ognuno battere,
come gocce di sangue
i minuti terribili 
che misurano il tempo 
vicino all'assalto.
Ma sui campi finitimi,
nelle trincee di rincalzo,
negli anfratti, nei borri,
nelle vie fragorose
rigurgitanti di fanti
d'armi e di cavalli
pronti ad accorrere,
si sentivano canti
piani e larghi come preghiere:
ritmi paesani
rievocati dai cuori
dei morituri;
parole semplici
ed immortali.
E tutte le facce
parevano in un'aureola,
 e tutti erano certi
di vincere, tutti certi
di rompere l'incanto,
di varcare il Calvario e l'Isonzo
di celebrare domani
la sagra serena
di Santa Gorizia.

Notte del 7 agosto
chi ti dimenticherà?
Che numero aveva il reggimento
fra cui passai nella mezzanotte
balenante, lungo la strada
bianca di Gorizia?
Tutti cantavano i fanti,
stesi lungo i due cigli,
come ragazzi presi
da un'indicibile gioia.
Passò uno squadrone
al trotto, con le lance 

basse; e tutti fra risa
e grida gli cantarono,
facendogli ala,
colle mani per trombe,
la fanfara,
come matti ragazzi
che uscissero da scuola.

Il colonnello in mezzo,
grande come un cipresso,
accennava la linea del fuoco
i vulcani delle granate,
i monti come roghi
che bruciassero il cielo,
e spiegava tranquillo
la battaglia.
E venne l'ordine di avanzare.
L'ombre nere si levarono
dai Iati della strada,
i lampi illuminarono
la selva dei fucili;
e il reggimento si sparse
pei campi come un volo
d'uccelli
verso l'aurora.

*********
(LA SAGRA DI SANTA GORIZIA)

martedì 6 agosto 2013

SEI AGOSTO di Alfonso Gatto

Albrecht Dürer
Era un giorno del tempo, un mattino d’estate
e ventilava il mare aperto il suo rigoglio.
Diranno ancora “amate” i poeti di corte
e la fede che prospera più cieca dell’orgoglio?
Quel giorno a Hiroshima fu decisa la morte.
Ora, se parla l’uomo, quale voce credente
sarà la sua nel chiedere la fede che spergiura?
Quel giorno a Hiroshima il tutto s’ebbe il niente
del suo potere, l’empio fu mai così pietoso.

Perché nascondi il volto in un volto ch’è ròso
dalla sua lebbra ardente? Ogni attimo minaccia
la grazia ch’ebbe il soffio del suo fango mortale.
Quel giorno a Hiroshima si rovesciò la faccia
dell’uomo nell'atroce risguardo del suo male,
fu l’essiccata effigie dell’occhio che rintraccia
la tenebra perenne, addentro nel fulgore
d’un punto che vacilla ed è la sua pupilla.

Un ordine la mano che fissa il suo potere,
ma la voce era d’uomo che annienta le parole
per non udirle, e aspetta: rigurgita il cratere
di povere festùche umane che ogni fuoco
bastava a incenerire, il fuoco che riscalda
il gelo e la miseria degli ànditi di carta,
il tizzo del bambino che soffia sul suo gioco.
Forse i morti non seppero s’era caduto il sole.

Quell’attimo d’un solo grido taciuto anch’esso,
quell’attimo, la mira del fulmine che scarta
nel sibilo la luce e ne dirompe l’iride.
L’abbaglio ammonitore è fermo nella salda
tenacia del ricordo: s’illumini il regresso
dell’uomo al suo patire, con le sue mani livide
la fredda guerra ci offra un òbolo di pace.

Passo su passo apprende che è sua la morte, l’uomo
avviato a riceverla. Quello che vede e ascolta
gli è proprio, l’insolenza d’avere in sè rivolta
per luce la sua faccia, ed il cammino, il verde
dei prati avrà memoria nel tempo, in ogni luogo.
Lascia cadendo un segno. Leggenda o storia, il rogo
dell’aria esalta innalza la vittima che perde.

Ma Hiroshima è l’arido sepolcro d’una culla,
la cenere d’un mondo che non dice più nulla.
La vittima non trova il volto da passare
al tempo che gli porti memoria dei suoi giorni
e la speranza, il credere per essere creduto.
L’abbaglio ammonitore è fisso in quel che appare,
è la notizia, il nuovo colpito dal suo segno,
il buco che s’allarga bruciando dai contorni
come un’orbita vuota: la storia è l’accaduto
che non dà voce e favola, che non tramanda un pegno
silente di memoria...

                      Ma dov’è la fanciulla
discesa al suo giardino movendo dai tranquilli
passi lo sguardo intorno? Trafitta dagli spilli
dell’iride sublime rifulse nell’evento
della sua luce, fusa. Non ebbe il suo momento,
all’attimo fu tolta, tentò l’assurdo plagio
di somigliarsi, piaga devota al suo contagio.

Non sarà più fanciulla, nemmeno il nostro amore
può ricordarla umana, distinguerle nel volto
mucoso gli occhi ciechi che videro in quel nulla.
Ma dov’è la vittoria che annunci al vincitore
quest’ibrido raccolto di lèmuri e di gechi?

E non sarà la morte chi non è più l’amore,
ma il suo fantasma, l’empio ludibrio che s’addìta.
Per essere d’esempio all’ultimo terrore
che la sua mano suscita, per piangere più forte
del pianto, del suo pianto, la vittima è la sola
speranza che non mente. Non è pietà, parola
dell’anima tradita. E’ la sua carne sola
quest'ululo fuggente... 

Attendere nel baco il seme da seccare,
la genesi demente che inverte il suo potere:
è questo da chiamare speranza per la fede
riposta nel terrore?
L'ipocrita paciere contratta lo sgomento
dell'uomo con l'offesa di chiedergli a misura
del peggio il suo contento, la scelta del volere
giustizia per sventura.

Questo chiede la terra: giustizia per sventura,
pane per fame, sete, ragione d'una guerra
che in sè non ha ragione per chiudere le mura
dell'assedio perenne, ragione d'una pace
che in sè non ha perdono d'arrendersi all'abiura.
L'uomo non è l'indenne saggezza del dolore.
Il fuoco non è brace.

Quest'uomo atteso a cedere il suo dolore antico,
a dirsi vinto e inerme, ha il volto del nemico
che logora il suo solco paziente e che non cede.
Ha l’arma della soma che porta e che misura
il suo passo dolente, il padre da chiamare
e se stesso nel figlio, la traccia del suo piede.
E’ l’uomo che vi esaspera tacendo con la pura
tristezza dello sguardo e che vi aspetta al fare.

Fatelo dunque il male, credetegli, spendete
la moneta sonante del rogo d’Hiroshima.
Ogni assetato resta a chiedere la sete,
sull’ultima parola ritornerà la prima
che avvenne nel chiamarci. Fatelo tutto il male,
credetegli, spendete la sua scienza beffarda.
La morte più non basta, demente irrisa guarda
la genesi una bianca eternità di sale.
******
(La storia delle vittime-1962*1965)

lunedì 5 agosto 2013

Tanti anni e tanti di Sibilla Aleramo

Irving Ramsay Wiles
E' Agosto, è meriggio, alti prati intorno,
io compio tanti anni e tanti, e da lungi
ecco tu mi scrivi con la cara mano, scrivi
che troppo io son giovine e zingara e inquieta,
tu mio bene segreto, tu che mio non sei,
tu alto sovra quanto mai, alto amore,
e da lungi il tuo sorriso di carità dolce
vita e morte ugualmente m'illumina,
colme e preziose di pianto e gloria.

domenica 4 agosto 2013

Di agosto di Cenne da la Chitarra

Charles Gleyre*Diana
D’agosto vi reposo en aire bella,
en Sinegallia, che me par ben fina;
il giorno sì vi do, per medicina,
che cavalcate trenta migliatella,

e tutti en trottier’ magri senza sella,
sempre lung’ a un’acqua de sentina;
da l’altra parte si faccia tonnina,
poi ritornando a poso di macella.

E, se ben cotal poso non vi anasa,
mettovi en Chiusi la città sovrana,
sì stanchi tutti da non disfar l’asa;

la borsa di ciascuno stretta e vana,
e stare come lupi a bocca pasa,
tornando in Siena un dïe la semana.
************
Risposta per contrarî ai sonetti de' mesi di Folgore da San Geminiano

sabato 3 agosto 2013

Come i fiocchi di neve di Maria Luisa Spaziani

Esther Erlich*Sitting pretty
Come i fiocchi di neve che non hanno
gemello mai in altro fiocco di neve,
i miei amori (sei, nè più nè meno)
ora si affidano alla rosa dei venti.

Di volta in volta profumo di anemoni,
gusto di bergamotto e camomilla,
salati come un'ostrica, amarognoli
come mandorle alle foci del Rodano,

droghe capaci d'inventare dei mondi,
nenie di dormiveglia o di agonia,
ebbrezze, elevazioni o la preghiera
prima del catecumeno.

Mischiati insieme - odori, gusti, musiche -
compongono un policromo ventaglio.
Mi fa fresco sul prato, nelle sere d'agosto
in attesa del settimo amore.
**********
(La luna è già alta)

venerdì 2 agosto 2013

1980 di Stefano Benni

Francisco Pons Arnau*Lirios
Qualche volta vi vedo
stretti alle vostre poche gioie
superstiti, salvi, scampati
poi magari disperati sbattere per terra
i vestiti vecchi della delusione
e piangere e chiedere giustizia
Ma una morte, anche lontana
segna sempre un pò la vostra faccia
sgomenta l'indifferenza
chiusi dentro le macchine, assediati
nelle città, nelle case
obbedienti agli schermi parlanti
tutti una volta pensate
che possa essere lo stesso destino
che siamo la stessa razza di animali
che conta gli anni in milioni
che sta impaurita in mezzo al cielo
e ascolta ogni ala che batte
e i grilli che vegliano i morti.

giovedì 1 agosto 2013

Note d'agosto di Riccardo Selvatico

William Turner* San Giorgio dalla Dogana* Sunrise
Do baloni de carta in t’un batelo,
la vose de un’armonica lontana,
dal Lido quieto un venteselo,
San Zorzi in bassa e in fianco la Dogana.

La luna in alto, che da mezo el cielo
se specia in aqua come ’na sultana;
la gondola che passa e che bel balo
in fregola la manda e se alontana.

E mi sul molo pensieroso intanto
che vado tormentandome a dar viva
tuta la poesia de quel’incanto,

el biscio sento d’un vapor che ariva,
e sento l’onda che de tanto in tanto
vien per burlarme a sciafisar la riva.
*********
Trad. simultanea....
Due palloni di carta in un battello
la voce di un'armonica lontana
dal Lido quieto un venticello
San Giorgio in bassa marea e in fianco la Dogana.
La luna in alto che in mezzo al cielo
si specchia in acqua come una sultana
la gondola che passa e che bel ballo
in fregola la manda e si allontana
E io sul molo pensieroso intanto
vado tormentandomi a rendere viva
tutta la poesia di quet'incanto
sento il brivido (più la sensazione di un serpente che striscia)
di un vapore che arriva
e l'onda che viene a burlarmi schiaffeggiando la riva.