Il vento soffia e nevica la frasca,
e tu non torni ancora al tuo paese,
quando partisti, come son rimasta,
come l'aratro in mezzo alla maggese.

martedì 25 dicembre 2007

In Occidente di Giovanni Pascoli

IN OCCIDENTE
I
Grande, lungo le molte acque, al sussurro
del fiume eterno, sopra i sette monti,
bianca di marmo in mezzo al cielo azzurro,
Roma dormiva. Agli archi quadrifronti

battea la luna; e il Tevere sonoro
fiorìa di spuma percotendo ai ponti.
Alto fulgeva col suo tetto d'oro

il Capitolio: ma la notte mesta
adombrava la Via Sacra del Foro.
Nell'ombra un lume: il fuoco era di Vesta,

che tralucea. Nel tempio le Vestali
dormian ravvolte nella lor pretesta.
Era la notte dopo i Saturnali.

Nelle celle de' templi, sui lor troni,
taceano i numi, soli ed immortali.
Intorno alla Dea Madre i suoi leoni

giacean nel sonno. Gli ebbri Coribanti
dormian con nell'orecchio ululi e tuoni.
Rosso di sangue uno giaceva avanti

la Dea. Dischiuso il tempio era di Giano.
Esso attendeva, coi serrami infranti,
l'aquile che predavano lontano.
II
Roma dormiva, ebbra di sangue. I ludi

eran finiti. In sogno le matrone
ora vedean gladiatori ignudi.
Ne' triclini ai dormenti le corone

eran cadute, e s'imbevean le rose
nel sangue che fluì dal mirmillone.
Dormivan su le umane ossa già rose,

le belve in fondo degli anfiteatri;
e gli schiavi tornati erano cose.
Dopo la breve libertà, negli atrï

giacean gli ostiari alla catena, quali
cani la cui leggera anima latri.
Era la notte dopo i Saturnali;

ed ogni schiavo dalla tarda sera
dormiva, udendo ventilar grandi ali,
e gracidare. Erano cigni a schiera

sul patrio fiume... No: su l'Esquilino
erano corvi in una nube nera...
Ei tesseva e stesseva il suo destino:

vedea sua madre; poi sentia la voce
del banditore: apriva al suo bambino
le braccia, e le sentia fitte alla croce.
III
Roma dormiva. Uno vegliava, un Geta

gladïatore. Egli era nuovo, appena
giunto: il suo piede, bianco era di creta.
L'avean, col raffio, tratto dall'arena

del circo; e nello spolïario immondo
alcun nel collo gli aprì poi la vena,
Rantolava; il silenzio era profondo:

il cader lento d'una goccia rossa
solo restava del fragor del mondo.
Ma d'uomini gremita era la fossa

in cui giaceva. All'occhio suo, tra un velo,
parea scoprirne e ricoprirne l'ossa.
Ed era solo, e l'uomo che col gelo

lo pungea di sua cute, più lontano
gli era del più lontano astro del cielo;
più della terra sua, più del suo piano

lunghesso l'Istro, e de' suoi bovi ch'ora
sdraiati ruminavano pian piano,
e de' suoi figli ch'attendean l'aurora,

piccoli nella lor nomade cuna,
e del suo plaustro, ch'era sua dimora,
là fermo e nero al lume della luna.
IV
E venne bianco nella notte azzurra

un angelo dal cielo di Giudea,
a nunzïar la pace; e la Suburra
non l'udiva; e nel tempio alto di Rhea

bandì la pace; e non alzò la testa
quell'uomo rosso ai piedi della Dea;
e vide, un fuoco, e disse, PACE; e Vesta

ardeva, e le Vestali al focolare
sedeano avvolte nella lor pretesta;
e vide un tempio aperto, e dal sogliare

mormorò, PACE; e non l'udì che il vento
che uscì gemendo e portò guerra al mare.
E l'angelo passò candido e lento

per i taciti trivi, e dicea, PACE
SOPRA LA TERRA!... Udì forse un lamento...
Vegliava, il Geta... Entrò l'angelo: PACE!

disse. E nella infinita urbe de' forti
sol quegli intese. E chiuse gli occhi in pace·
Sol esso udì; ma lo ridisse ai morti,

e i morti ai morti, e le tombe alle tombe
e non sapeano i sette colli assorti,
ciò che voi sapevate, o catacombe.

(Angelo di Thayer)

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