Armfield Mentre mio padre moriva ti vidi la prima volta.
Da quel tempo sempre stavo con te, ti cercavo,
anche tu mi cercavi: in mezzo alla gente eravamo soli,
trepido il tuo sguardo, triste – contento il mio.
Il primo giorno dell’anno dovevi venire a una festa,
io avevo al collo dei fiori di carta bianca,
piansi quando vidi che erano le tre,
e ancora il tuo volto caro non appariva. Ma il giorno
secondo dell’anno – qualcuno
ti aveva informato – corresti dalla piccola donna,
e tutta la sera per lei come una luna splendesti.
Dicesti dolci parole e non avevi chitarra,
le dame che erano in sala si fecero tristi.
«Bene, è ora di andare». Saliti in vettura,
tu e io come ragazzi, mi guardavi:
io non osavo muovermi. Mi accarezzasti la fronte.
Piegando il viso, vergognandomi, carezzai la tua fronte.
Nascondesti il tuo viso dietro il mio collo. La mano
era ferma sul mio ginocchio. Pensavo:
così fanno tutti, domani neppure si ricorderà.
Ma sono passati due mesi e ogni sera c’incontriamo,
il tuo cappotto è povero, non hai guanti né berretto,
ma la tua fronte ogni sera
è più chiara, i tuoi occhi
più teneri e gravi, la mano
che mi stringe più calda, più forte;
trascorrono ore che paiono solo alcuni momenti.
Al buio camminiamo, ed io
poso la fronte ogni tanto con umiltà sul tuo petto.
Passano case e strade, passano ponti e canali,
passano muti giardini, cade tranquilla la neve.
Le dita intrecciate, le tempie
unite in un solo tepore,
gli occhi vicino agli occhi, come una sola persona
che all’anima sua mormori tenere cose, come
la neve che scende e risale
senza rumore né moto, leggero noi andiamo.
Da quel tempo sempre stavo con te, ti cercavo,
anche tu mi cercavi: in mezzo alla gente eravamo soli,
trepido il tuo sguardo, triste – contento il mio.
Il primo giorno dell’anno dovevi venire a una festa,
io avevo al collo dei fiori di carta bianca,
piansi quando vidi che erano le tre,
e ancora il tuo volto caro non appariva. Ma il giorno
secondo dell’anno – qualcuno
ti aveva informato – corresti dalla piccola donna,
e tutta la sera per lei come una luna splendesti.
Dicesti dolci parole e non avevi chitarra,
le dame che erano in sala si fecero tristi.
«Bene, è ora di andare». Saliti in vettura,
tu e io come ragazzi, mi guardavi:
io non osavo muovermi. Mi accarezzasti la fronte.
Piegando il viso, vergognandomi, carezzai la tua fronte.
Nascondesti il tuo viso dietro il mio collo. La mano
era ferma sul mio ginocchio. Pensavo:
così fanno tutti, domani neppure si ricorderà.
Ma sono passati due mesi e ogni sera c’incontriamo,
il tuo cappotto è povero, non hai guanti né berretto,
ma la tua fronte ogni sera
è più chiara, i tuoi occhi
più teneri e gravi, la mano
che mi stringe più calda, più forte;
trascorrono ore che paiono solo alcuni momenti.
Al buio camminiamo, ed io
poso la fronte ogni tanto con umiltà sul tuo petto.
Passano case e strade, passano ponti e canali,
passano muti giardini, cade tranquilla la neve.
Le dita intrecciate, le tempie
unite in un solo tepore,
gli occhi vicino agli occhi, come una sola persona
che all’anima sua mormori tenere cose, come
la neve che scende e risale
senza rumore né moto, leggero noi andiamo.
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