Il vento soffia e nevica la frasca,
e tu non torni ancora al tuo paese,
quando partisti, come son rimasta,
come l'aratro in mezzo alla maggese.

martedì 23 novembre 2010

La Doppia Immagine di Anne Sexton

Renè Bouchè A novembre compio trent'anni.
Sei ancora piccola, hai solo tre anni.
Guardiamo le foglie gialle, sono stremate,
turbinano nella pioggia d'inverno,
cadono e s'acquattano. Ed io ricordo
i tre autunni che non hai passato qui.
Hanno detto che mai ti avrei riavuto.
Ti dico quel che mai saprai davvero:
le congetture mediche
che spiegano il cervello non saranno mai reali
quanto queste foglie abbattute.
Io, che ho tentato due volte d'ammazzarmi,
ti avevo dato un nomignolo
appena arrivata, nei mesi del piagnucolare;
poi una febbre t'è rantolata in gola
ed io mi muovevo come una pantomima
attorno al tuo capino.
Angeli brutti mi hanno parlato. La colpa,
dicevano, era mia. Facevano gli spioni
come streghe verdi versando nella testa la rovina
come un rubinetto rotto;
come se la rovina avesse allagato la pancia e sommerso la culla,
un vecchio debito che dovevo accollarmi.
La morte era più semplice di quanto credessi.
Il giorno che la vita t'ha restituito sana e salva
Ho lasciato le streghe rapire la mia anima in colpa.
Ho finto d'esser morta
finché uomini bianchi m'hanno spompato il veleno,
m'hanno messo senza braccia e slavata
nella manfrina di scatole parlanti e letti elettrici.
Ridevo a vedermi messa ai ferri in quell'hotel.
Oggi le foglie gialle
sono stremate. Mi chiedi dove vanno.
Ti dico che l'oggi ha creduto in se stesso, altrimenti cedeva.
Oggi, piccina mia, Gioia,
ama il tuo essere dove adesso vive.
Non esiste un Dio speciale cui rivolgersi; o se c'è,
allora perché t'ho fatto crescere altrove.
Tu non riconoscevi la mia voce
quando tornavo a casa a trovarti.
Tutti i superlativi
di alberi di Natale e vischi del futuro
non ti aiuteranno a sapere le feste che hai perduto.
Nel tempo che non amai me stessa
venni in visita a te su marciapiedi spalati,
mi tenevi per un guanto.
Dopo questo fu di nuovo neve.
Mi hanno spedito lettere con tue notizie
e io cucivo mocassini che non avrei mai usato.
Quando cominciai a sopportarmi
andai a stare con la mamma. Troppo tardi,
troppo tardi, dissero le streghe, per stare con la mamma.
Non me ne sono andata.
Ma un ritratto mi son fatto.
Dal manicomio nel parziale ritorno
venni alla casa di mia madre a Gloucester.
Ed ecco come venni ad abbrancarla,
ed ecco come venni a perderla.
Mia madre disse, per il suicidio io non posso dar perdono.
Non l'hai mai potuto.
Ma un ritratto lei m'ha fatto.
Ho vissuto da ospite rabbioso,
parzialmente rammendata, bimba esorbitante.
Ricordo che mia madre faceva del suo meglio.
Mi portò a Boston per farmi cambiare il taglio.
Sorridi come tua madre, disse il capocciante.
Non mi pareva interessante.
Ma un ritratto mi son fatto.
C'era una chiesa là dove sono cresciuta,
là in bianchi armadi fummo inchiavati
come coro di marinai, o puritani, irreggimentati.
Mio padre passava col piattino per la questua.
Dissero le streghe, troppo tardi per esser perdonata.
E non fui propriamente perdonata.
Ma un ritratto m'hanno fatto.
Quell'estate gettiti irrigui s'inarcavano
a pioggia sull'erba rivierasca.
Parlavamo di siccità
mentre il prato corroso dal salmastro
nuovamente raddolciva.
Per passare il tempo falciavo l'erba
e la mattina mi facevo fare il ritratto,
fissando il sorriso nella formalità.
Ti ho spedito il disegnino di un coniglio,
e una cartolina col Motif number one
come se fosse normale
essere madre ed essersene andata.
Hanno appeso il ritratto nella fredda luce
del lato nord, che bene mi si addice,
per farmi stare bene.
Soltanto mia madre s'ammalò.
Mi volse le spalle, come se la morte contagiasse,
come se la morte si riflettesse,
come se il mio morire l'avesse corrosa.
Ad agosto avevi due anni, ma era dubbio il calcolo dei giorni.
Il primo settembre mi guardò in faccia
e mi disse che le avevo attaccato il cancro.
Le mozzarono le colline dolci
e ancora non avevo la risposta.
Quell'inverno lei tornò
parziale ritorno
alla sterile suite
di medici, nauseante
crociera di raggi X,
l'aritmetica delle cellule impazzita.
Parziale intervento,
braccio grasso, prognosi infausta,
li ho sentiti dire.
Durante le burrasche marine
lei si fece fare il ritratto.
Caverna di uno specchio,
appeso al lato sud;
una coppia di sorrisi, una copia di lineamenti.
E tu mi assomigliavi sconosciuto
viso mio, tu lo indossavi.
Dopotutto eri mia.
Ho svernato a Boston,
sposa senza figli,
niente di dolce da spartire,
con le streghe a fianco.
Ho perduto la tua infanzia,
tentato un altro suicidio,
subito il secondo hotel dei sigilli.
M'hai fatto un Pesce d'Aprile.
Abbiamo riso insieme, fu cosa buona.
Per l'ultima volta m'hanno dimesso
il primo maggio;
laureata in casi mentali,
con l'assenso dell'analista,
un libro finito di versi,
la macchina da scrivere e le borse.
Quell'estate imparai a rimettere vita
nelle mie sette stanze,
andavo su barchette a cigno, al mercato,
rispondevo al telefono,
da brava moglie offrivo da bere,
facevo l'amore fra crinoline e abbronzature d'agosto.
E tu venivi ogni weekend. No, mento.
Venivi di rado. Fingevo che c'eri
bimba farfalla, porcellina
guance di gelatina,
tre anni di disobbedienza,
ma splendida sconosciuta.
E dovevo imparare
perché volevo morire invece che amare,
perché mi faceva male la tua innocenza,
e perché accumulo le colpe
come un giovane internista
rivela i sintomi e la certa evidenza.
Quel giorno d'ottobre che andammo a Gloucester
le colline rosse mi ricordavano
la pelliccia di volpe rossa sdrucita
in cui giocavo da bambina,
immobile come un orso, una tenda,
una gran caverna che ride, pelliccia di volpe rossa.
Oltrepassammo il vivaio dei pesci,
il baracchino dove vendono l'esca,
Pigeon Cove, lo Yacht Club,
Squall Hill, verso la casa in attesa
ancora, la casa sul mare.
E due ritratti sono appesi su opposte pareti.
Al lato nord il mio sorriso al suo posto è fissato,
risalta nell'ombra il mio viso ossuto.
Mentre posavo lì cosa avevo sognato
tutta me negli occhi in attesa,
il giovane viso, la zona del sorriso,
trappola per volpi.
Al lato sud il suo sorriso al suo posto è fissato,
le guance vizze come orchidee appassite;
mio specchio beffardo, mio amore spodestato,
mia immagine prima. Mi occhieggia dal ritratto
quella testa di morte impietrita
che avevo sopraffatto.
L'artista ci fissò alla svolta;
si sorrideva inquadrate nelle tele
prima di scegliere strade da prima separate.
La pelliccia di volpe rossa doveva esser bruciata.
Mi decompongo sulla parete
come Dorian Grey.
E questa fu caverna di uno specchio,
una donna sdoppiata che si fissa
come se il tempo l'avesse impietrita
- due signore in terra d'ombra assise -
Hai dato un bacio alla nonna,
e lei ha pianto.
Non potevo tenerti
tranne il weekend. Ogni volta venivi
stringendo il disegnino del coniglio
che ti avevo spedito. Per l'ultima volta
disfo i tuoi bagagli. Ci tocchiamo senza un contatto.
La prima volta hai chiesto il mio nome.
Ora rimani per sempre. Dimenticherò
che sbalzavamo cozzandoci come marionette
appese a fili. Non era l'amore
ridursi al weekend.
Ti sbucci le ginocchia, impari il mio nome,
traballando sul marciapiede piangi e chiami.
Mi chiami mamma e ricordo ancora mia madre,
che altrove, nei dintorni di Boston, muore.
Ricordo che ti chiamammo Gioia
per poterti chiamare gioia.
Arrivasti come un ospite imbarazzato
allora, tutta fasciata umida meraviglia
alla mia mammella pesante.
Avevo bisogno di te. Non volevo un maschio,
solo una femmina, un topino lattoso di bimba,
da sempre amata, da sempre esuberante
nella casa di se stessa. Ti chiamammo Gioia.
Io, che non fui mai certa d'esser femmina,
avevo bisogno di un'altra vita,
di un'altra immagine per ricordarmi.
E fu questa la mia più grave colpa;
tu non potevi curarla o lenirla.
Ti ho fatta per trovarmi.

3 commenti:

Anonimo ha detto...

il tuo ricordo ho impresso
in quest'ombra che avanza,
dilaga nell'anima debole
che più non resiste e si sfalda
in colori delicati e tenui
che non sporcano
e la pioggia dilava.

a mia madre)
Gujil

Francesca Vicedomini ha detto...

Anche alla mia, se me lo permetti.
Grazie Gujil!

Rose ha detto...

Non posso commentarla, adesso.
È talmente bella da fare male.