Il vento soffia e nevica la frasca,
e tu non torni ancora al tuo paese,
quando partisti, come son rimasta,
come l'aratro in mezzo alla maggese.

domenica 10 luglio 2011

La calandra di Giovanni Pascoli

Hugo Salmson
Galleggia in alto un cinguettìo canoro.
È la calandra, immobile nel sole
meridïano, come un punto d'oro.
E le sue voci pullulano sole
dal cielo azzurro, quando è per tacere
la romanella delle risaiole;
e non più tintinnìo di sonagliere
s'ode passare per le vie lontane;
ché già desina all'ombra il carrettiere.
Né più cicale, né più rauche rane,
non un fil d'aria, non un frullo d'ale:
unica, in tutto il cielo, essa rimane.
Rimane e canta; ed il suo canto è quale
di tutto un bosco, di tutto un mattino;
vario così com'iride d'opale.
Canta; e tu n'odi il lungo mattutino
grido del merlo; e tu senti un odore
acuto di ginepro e di sapino,
senti un odore d'ombra e d'umidore,
di foglie, di corteccia e di rugiada;
un fragrar di corbezzole e di more.
Vai per un bosco e senti, ove tu vada,
quei fischi uscir più liquidi e più ricchi;
poi, come colpi da remota strada
di spaccapietre, il martellar de' picchi.
Ma no: dib dib: è il passero. Ricopre
la nebbia i campi, dove è dall'aurora
de' bovi il muglio e il viavai dell'opre.
Fuma la terra, fuma il cielo; ancora
fuma il camino e, tra le tamerici,
fuma il letame e grave oggi vapora.
Vaniscono laggiù le zappatrici;
di qua l'aratro emerge per incanto,
tra un pigolìo di passeri mendici.
Ma donde viene chiaro e dolce il canto
or della quaglia? È in fior lo spigo; tondo
s'apre nei campi il fior dell'elïanto.
È sera forse? e dentro il ciel profondo
il crepuscolo indugia? e nel sereno
canta la quaglia di tra il grano biondo?
E pieno il prato è già di trilli, e pieno
il grano è già di lucciole, e su l'aie
bianche s'esala il buon odor del fieno.
E no, ch'è l'alba: è sotto le grondaie
tutto un ciarlare. Sono intorno al nido
le rondinelle garrule massaie.
La casa dorme. Niuno ancor nel fido
bricco il caffè, nemico al sonno, infuse.
Vola e rivola il mattutino strido
lungo le verdi persïane chiuse.
Un torvo strillo di poiana... muta
solitudine... roccie irte, malvage...
qualche cesto d'assenzio e di cicuta...
Il cielo sfuma in un rossor di brage.
Solo un torrente urlare odo: russare
d'un ebbro in mezzo una sua muta strage.
E la poiana strilla. Ecco mi appare
una rovina, una deserta chiesa,
da cui te, solitario, odo cantare.
Canti come una dolce anima presa
da' suoi ricordi, tu, dalla rovina
dove è già la pietosa edera ascesa,
passero azzurro! O donde mai, vicina
cincia, m'inviti in vano a te? Da un orto
rosso, cui cinge il bosso e l'albaspina.
Pendono rosse tra il fogliame smorto
le dolci mele, e ingiallano le pere.
Nel mezzo un fico, nudo già, contorto.
E vi cantano cincie e capinere...
Ma no, sei tu che, immobile nel sole,
canti, o calandra, sopra le brughiere.
E le tue voci pullulano sole
dal cielo azzurro, con virtù segreta,
come veggenti limpide parole,
o grande su le brevi ali poeta.
(Il bordone/L'aquilone)
Primi poemetti

3 commenti:

Rose ha detto...

La calandra con la sua pancina azzurra.
Quanto è coinvolgente il mondo di Giovanni!


Qui cantano le cicale.

Buona domenica!

Rose ha detto...

Anche la ragazzina sembra un passerotto...

Francesca Vicedomini ha detto...

Con tutte ste sagre dei usei..che siano maledette!
E con ciò buon lunedì...